LA PAURA DELLA MORTE E DELLA
SOFFERENZA
“La vita è una grande sorpresa: Non
vedo perché la morte non dovrebbe essere una sorpresa ancora più grande”.
La
morte è qualcosa che ogni persona non è assolutamente in grado di prevedere e
alla quale è impossibile sottrarsi. Nessuno sa esattamente come morirà, se in
modo rapido e indolore o a seguito di una malattia lenta e dolorosa, a causa di
un incidente improvviso, mentre dorme o mentre è sotto sforzo. Quindi ciascuno
di noi tende a distrarsi per rimuovere questo pensiero. Eppure è strano che
l’evento più certo della nostra vita venga costantemente rimosso, scompaia dai
nostri discorsi per diventare qualcosa di inconfessabile, che ci inorridisce
pur sapendo che sarà un appuntamento fisso nel nostro orizzonte.
Perché
si ha paura della morte? Chi la teme tende a non parlarne. Il carattere
spaventoso della morte è probabilmente legato al fatto che pone fine alla
possibilità di vivere, di essere felici, di soddisfare i nostri desideri, raggiungere
i nostri obiettivi, di poter amare. Alla morte non ci si rassegna e la paura
nei confronti di essa forse nasconde altre paure quali quella del dolore
fisico, della sofferenza morale, del buio, dell’ignoto, del nulla. Quindi
facciamo il possibile per allontanarla, a volte anche ricorrendo a pratiche
mediche estreme e perdendo il senso del limite.
Dal
romanzo “La morte di Ivan Il’ic” di Lev N. Tolstoj abbiamo evidenziato alcune
espressioni che ci hanno colpiti:
“Oltre alle riflessioni da quella morte suggerite
a ciascuno sui trasferimenti e gli eventuali cambiamenti nel servizio che ne
potevano derivare, la morte stessa di un prossimo conoscente richiamava, in
quanti ne erano informati, come sempre un senso di soddisfazione che fosse
toccata a lui e non a loro –Lui è morto e io sono vivo”
“Il principale tormento di Ivan Il’ic era la
menzogna – la menzogna chissà perché adottata da tutti – che lui fosse soltanto
malato, non già sulla via di morire, e che gli sarebbe bastato star tranquillo
e curarsi e allora ne sarebbe venuto tutto di bene. (…) Era questa menzogna
a tormentarlo, era il fatto che non volessero riconoscere quello che tutti
sapevano e che anche lui sapeva, ma mentissero invece sulla sua orribile
condizione e costringessero anche lui ad aver parte alla menzogna”.
“Gli era venuto in capo che quanto gli era fin qui
sembrato assolutamente inammissibile, di aver cioè vissuto non come si
doveva, potesse invece essere la verità. (…) Si era provato a difendere
davanti a se stesso tutte quelle cose. E
ad un tratto aveva sentita tutta l’inconsistenza di ciò che difendeva. Non
c’era niente da difendere. –E se così è-si era detto- e se io lascio la vita
con la coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è
più nulla da fare, allora che sarà?
…. questi i dilemmi dell’uomo che
pensa alla propria morte: l’idea sempre più precisa del proprio venir meno, la
menzogna legata alla negazione di una situazione evidente di morte, il senso
che quanto fatto nella vita risulti vano oppure la sensazione di non aver
vissuto fino in fondo la propria vita.
Del resto ogni cultura, ogni forma
sociale ha utilizzato delle modalità per esorcizzare il timore nei confronti di
un evento come quello della morte. Ma non per tutte le culture la morte ha dato
un senso di disperazione, come invece sembra accadere nel nostro tempo, nel
nostro mondo.
Si accettava la
condizione mortale dell’uomo, si accettava quindi la morte, perché era chiaro
ed accettato il concetto di “limite”. Inoltre quanti avevano anche una fede di
tipo spirituale pensavano che la morte fosse l’inizio della vita vera o
comunque un passaggio verso un altro mondo. Spesso il passaggio comportava la
sottoposizione ad un giudizio.
Ci chiediamo:
- il terrore della morte è una conseguenza della
capacità dimostrata dall’uomo di superare alcuni dei limiti nei quali
vive? Pensiamo alla grandi conquiste scientifiche, mediche, biologiche
ecc.. Operiamo cioè una sorta di
“rimozione della morte” (Z. Bauman) fintantochè questa non
sopraggiunge e ci sovrasta?
- un’altra considerazione di tipo “morale”… la
convinzione di aver vissuto una vita “in pienezza” davvero ridimensiona la
paura della morte? E se sì, perché? Cosa significa?
- consideriamo ogni giorno, ogni ora, come un
dono?;viviamo con intensità e con tranquilla coscienza? Questo ci sostiene
nel pensiero della morte?
- vivere secondo
l’insegnamento evangelico dà una sensazione di pienezza alla vita, le
attribuisce un significato e permette di andare incontro alla morte con
speranza?
La sofferenza tra esperienza umana e speranza
cristiana
Il dolore e la sofferenza non sono
astrazioni, ma realtà da cui non possiamo fuggire. “Tutta la creazione geme
e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm
8,22).
Questa
frase, tratta dalla Lettera di S. Paolo ai Romani, ci indica una grande verità.
La sofferenza e il dolore permeano il creato, lo avvolgono. Non è possibile
pensare a una vita dove non esistano dolore e sofferenza, non è possibile
pensare ad una vita perfetta. Il dolore e la sofferenza non sono astrazioni, ma
realtà da cui non possiamo fuggire.
Come nell’uomo, anche per la natura troviamo il
limite, non è possibile pensare a una natura illimitata. Illuminante da questo
punto di vista una frase di A. Baricco, estratta dal romanzo Oceano Mare:
“La natura ha una sua perfezione sorprendente e questo è il risultato di una
somma di limiti. La natura è perfetta perché non è infinita. .... Perché il
sistema funzioni deve finire”. La stessa vita
cade inesorabilmente sotto questo giudizio. Essa è il dono più alto che ci
viene fatto, ma nella sua perfezione, incorre nel limite. La preziosità e la
precarietà della vita umana connotano l’esperienza di ogni persona. Due sponde
necessarie, due realtà irrinunciabili.
L’uomo, ci ricorda Pascal, prova sgomento “vedendosi
sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell’infinito e del
nulla”. Viviamo veramente sospesi tra i due abissi che ci descrive
Pascal. Da una parte la vita mostra tutta la
sua precarietà, l’insondabilità, la non-programmazione, d’altra parte
paradossalmente, proprio questa precarietà la rende preziosa perché unica e
irripetibile.
In una prospettiva cristiana, però, S. Paolo ci indica
la via della speranza che passa attraverso la morte e la resurrezione di Cristo
stesso.
Ma…
- La sofferenza tante volte sembra non portare da
nessuna parte. Non apre nuovi percorsi o nuove strade. La vita non si sta
rinnovando, ma, in una maniera o nell’altra, sembra spegnersi in modo
definitivo. La stanza diviene l’unico luogo dove fermare lo sguardo, il
letto o la carrozzina divengono, giorno dopo giorno luoghi troppo angusti
per far esplodere di nuovo la vita.
S. Francesco invece nel Cantico delle Creature
(siamo nel 1224 circa…) chiama la morte
“sorella”, era capace di avere con lei un rapporto di vicinanza sublime, la
sentiva come parte di sé, la familiarità con essa lo toccava in profondità:
“Signore, per riguardo alle mie infermità, vi chiedo soltanto di sopportarle
pazientemente”. Non chiede di togliere di mezzo le sofferenze, chiede
soltanto la forza di poterle sopportare.
Ci chiediamo:
- Sentire la morte come parte di se
stessi ….. ci abbiamo mai pensato? A vent’anni eravamo lontanissimi da queste
considerazioni, ma adesso che tutti abbiamo abbondantemente passato i 40..
50...?
- non è affermazione da poco. Per San
Francesco non era indice di disperazione ma consapevolezza della propria
finitezza e della sua condizione di creatura che si affida. Per noi?
Parliamoci chiaro…. La morte è il contrario della vita, la prima non è giustificabile. Quante
volte ho ripetuto piangendo persone care che “la morte è ingiusta” ...
Non riusciamo più a guardare in faccia il limite che
queste “crude realtà” ci pongono dinanzi, tanto che, accanto all'estrema
solitudine del sofferente o del morente, emerge una mentalità che non ci aiuta
più a supportarle con la presenza. La sofferenza e la morte, a volte, sono
consumate in uno stato di profondo isolamento.
A forza di rimuoverle, però, si rischia di non
riconoscerle. Esse non sono più al centro della nostra vita, come momento di riflessione,
ma rimangono ai margini e quando, purtroppo, si presentano nella nostra vita non sappiamo più
accompagnare e sostenere chi è costretto a subirne le conseguenze. (cfr il
povero Ivan Ilic)
Con questo, non si deve fare l’elogio della sofferenza
e del dolore, non si può cadere in una specie di “masochismo religioso”
inneggiando ad essi o pensare che chi soffre si merita quella punizione. La
sofferenza rimane una realtà negativa della nostra vita; non si può gioire
davanti ad essa, ma l’unica strada per riscattarla a livello umano è saperla
riconoscere per quello che è, guardarla in faccia.
Ci chiediamo:
- … come è cambiata la percezione della sofferenza
in ambito religioso? (ho in mente il film francese – regia Alain Cavalier-
su Teresa di Lisieux, del 1986, o la vita di alcuni santi per i quali la
sofferenza è legata all’incontro con Cristo).
- Non pensiamo piuttosto che la scienza
sia la vera fede di oggi, poiché riteniamo che solo essa sia in grado di
scacciare la sofferenza e di farci morire “bene”?
La sofferenza e i giovani
Sembrano impermeabili a tutto e, quando sono toccati
dalla sofferenza o dalla morte, vivono emozioni intense ma rapide. Queste
realtà non entrano a far parte di una riflessione costante e duratura. Il loro
mondo non è toccato da tutto ciò, anzi, niente sembra mettere in discussione
questa realtà fatta di spensieratezza e leggerezza.
Anche noi adulti, però, non sappiamo più accompagnare
i giovani in questa riflessione. La conseguenza immediata è che non riescono a
sostare davanti al limite, tutto diventa possibile, tutto diventa superabile e
corrono il rischio di rispondere al dolore degli altri con estrema
insensibilità.
Ci chiediamo:
- È possibile accompagnare intere generazioni con
l’idea che la morte non esista o che il dolore possa essere sempre evitato
(uso di droghe, o buttandosi nel divertimento a tutti i costi?). Continuando così, non aumentiamo l’indifferenza e
l’insensibilità nei confronti del dolore proprio e altrui?
Il paradosso della
croce
La Sofferenza e il dolore sono le esperienze più
paradossali della nostra vita. È difficile trovare parole adeguate in grado di
esprimere il senso e la ragione di realtà che interferiscono profondamente con
il nostro quotidiano, cambiando, a volte, completamente l’esistenza. Parlare della
croce è difficile, spesso si rischia di usare parole ovvie e consolatorie, che
sono sempre inadeguate e banali per la persona che soffre. Diceva Giovanni
Paolo II a migliaia di giovani nell’Aprile del 1988: “la croce è iscritta
nella vita dell’uomo, volerla escludere dalla propria esistenza è come volere
ignorare la realtà della condizione umana. E così, siamo per la vita, eppure
non possiamo eliminare dalla nostra vita personale la sofferenza e la prova…”
Non possiamo, quindi, partendo da quest’ultimo
passaggio evitare il confronto con l’esperienza cristiana. Dio per noi
cristiani non è rimasto a guardare dal cielo l’umanità che soffre, ma ha
mandato il suo figlio, Gesù Cristo, a condividere con l’uomo la sofferenza e
persino la morte.
Ci chiediamo:
- Gesù non ha amato la croce e la sofferenza ad
essa connessa. Ma nemmeno lui, quando ha rivestito la condizione umana, ha
potuto esimersi dall’affrontarla, insegnandoci piuttosto a riconciliarci
con i nostri limiti, dando dignità alla sofferenza.
- Ok la morte, ma perché la sofferenza, oggi? Oggi
c’è un’etica del fine vita (es. suicidio assistito) che può scontare la
sofferenza, ricorrendo al criterio del “diritto a morire” (v. intervento
di Umberto Veronesi)… cosa ne pensiamo?
- pensiamo alla sofferenza dell’innocente, del
bimbo malato.. non consideriamo un gesto di pietà pensare di sopprimerli?
L’uomo dei dolori
che ben conosce il patire
Gesù stesso – e non è stato facile nemmeno per lui… -
si pone come l’uomo del dolore, che ben
conosce la sofferenza. Diventando “uomo dei dolori”, egli ha stabilito una nuova solidarietà di Dio con le
sofferenze umane. Figlio eterno del Padre, in comunione con lui nella sua
eterna gloria, nel farsi uomo si è ben guardato dal rivendicare privilegi di
gloria terrena o almeno di esenzione dal dolore, ma è entrato nella via della
croce, ha scelto come sua parte le sofferenze non solo fisiche ma anche morali
che lo accompagnano fino alla morte: tutto per nostro amore, per dare agli
uomini la dimostrazione decisiva del suo amore, per riparare al loro
peccato.
Lì sul Golgota Gesù compie per amore il
suo ultimo gesto. Si dona fino in fondo, senza riserve, l’uomo dei dolori
affida tutta la sua esistenza al Padre. È l’ultimo atto di una vita dedicata
agli altri e specialmente a quelli che soffrono e sono relegati ai posti più
infimi della società.
Ci chiediamo:
·
Gesù dunque ha sofferto, ma non per stabilire che solo soffrendo ci si
salva. Il Signore infatti guarisce e lenisce la sofferenza di chi incontra nella sua predicazione (ciechi, paralitici
ecc…). Perchè?
·
Molto spesso Gesù ha steso la mano, ha
protetto, guarito, si è intrattenuto mostrando compassione,anche opponendosi alle discriminazioni sociali del suo
tempo. Solo chi ha sofferto più essere partecipe della sofferenza degli
altri. Viene in mente Sap 1,13-15 “Dio non ha creato la morte e non gode
per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché
esistano”… ma di quale vita si tratta?
·
Gesù si
commuove davanti alla sofferenza ed alla morte dell’amico Lazzaro. Proviamo a
pensare ad un Dio che “si commuove profondamente e si turba” per la morte
corporale dell’uomo…
Come non sentirlo vicino, inoltre, nel
momento di maggiore dolore, come quando sta per morire “Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Scrive C. Rocchetta nel libro Teologia
della tenerezza a p. 249: “È certo che in quell’attimo Gesù non ha più
nulla che gli appartenga o possa dire suo. Dopo aver offerto tutto, il suo
corpo e il suo spirito, la sua vita e la sua morte, il passato, il presente e
il futuro, vive ora la situazione più terribile: sentirsi solo, non
sperimentare la filialità unica che lo fa essere una sola cosa col Padre al
punto da avvertire la propria condizione al limite del vuoto o
dell’insignificanza… Una simile “notte dello spirito” è superata non
cancellandola o rimuovendola, ma accettandola e vivendola fino in fondo,
bevendo il calice della passione fino all’ultima goccia”.
Quante persone, pur avendo una fede
immensa, si sentono perdute, abbandonate, si domandano dove Dio sia finito.
Nella lunga notte della sofferenza è difficile sperare: il legame che pensiamo
di avere costruito con Dio può sparire in poco tempo.
Ma è proprio in quel frangente che il
sofferente ha più bisogno di vicinanza, di presenza, e diviene indispensabile
recuperare quel legame per non restare solo e rendere più docile la morte.
Prima della sua Passione, distaccandosi
dai suoi discepoli aveva pregato dicendo: “Padre, se vuoi,allontana da me
questo calice, tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua” (Lc
22,42).
“Nell’orazione, seppure breve, per ben due
volte egli sottolinea la richiesta dell’allontanamento del calice della volontà
paterna… Sebbene vada incontro ad una morte violenta e ingiusta, egli non
dubita della volontà del Padre e si rende disponibile a fare la sua volontà,
affermando come primario non il proprio desiderio, ma il piano divino…”
Gesù non è, dunque, un autolesionista, non vuole
morire, anzi chiede al Padre di allontanare quel calice. Gesù rimane solo,
abbandonato anche dai suoi discepoli. Non sono capaci di seguire Gesù in questo
momento così triste. Invitati dallo stesso a vegliare, gli apostoli si
addormentano.
C’è un elemento di fondamentale importanza: la
preghiera. La tentazione di sottrarsi all’incombente minaccia di sofferenza
e di morte non avrà presa sull’umanità di Gesù, perché egli vive questa
minaccia incombente e reale dall’interno della sua consapevole ed esplicita
relazione con il Padre. La preghiera, dunque, non evita, come in un rito
scaramantico, tentazione o sofferenza, ma non ci lascia da soli di fronte
all’incombere di queste tristi realtà. La preghiera acquista il senso di
una lotta per comprendere la volontà del Padre anche all’interno di un destino
difficile e angosciante. Gesù non vuole andare a morire, ma la preghiera gli fa
comprendere come egli sia chiamato a intraprendere questa strada, invitando i
discepoli a seguirlo. Ha riposto la sua vita nelle mani del Padre con fede e
speranza.
Ci chiediamo:
- abbiamo pensato o abbiamo sperimentato il valore
della preghiera nell’ambito della sofferenza? Cosa ci aspettiamo dalla
preghiera? Quando ricorriamo ad essa? Quando abbiamo toccato il fondo?
Lo vide
e ne ebbe compassione – l’accompagnamento nella sofferenza
L’espressione più alta di come sostenere e accompagnare
la sofferenza, però, la troviamo nella parabola del Buon Samaritano. L’episodio
è raccontato da Gesù nel contesto di un colloquio con un maestro della legge
che gli chiedeva quale fosse il metodo per ereditare la vita eterna.
Un dottore della legge, abituato alle sottigliezze
della scuola rabbinica, si alza tra la folla e lo interroga: “Maestro,
che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?”. La risposta di Gesù
è immediata: “Che cosa sta scritto nella legge? Che cosa vi leggi?”.
Dopo un momento l’interlocutore recita a memoria: “Amerai il Signore Dio tuo
con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con
tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. Ribatte Gesù: “Hai
risposto bene; fa questo e vivrai”. Il dottore incalza: “E chi
è il mio prossimo?”
Ogni uomo che si trova nel bisogno, al di là dei
connotati della nazionalità, di livello sociale, di ideologia o di religione.
Ignorarlo, voltargli le spalle, passare oltre, come il sacerdote e il levita, è
non riconoscere la sua dignità umana. “Lo vide e ne ebbe compassione…”. Gesù
indica una strada precisa per poter star a fianco alla sofferenza.
Dio non è sofferenza. La volontà di Dio
è che noi operiamo, al limite delle nostre possibilità, per il sollievo delle
sofferenze del mondo e dell’uomo. Il
disagio è spesso più forte della volontà di impegnarsi in un cammino irto e
complesso. Lo vide e ne ebbe compassione. Rischio: “Se mi fermo
per aiutare quest’uomo che potrà succedermi?”
Ci chiediamo:
- riteniamo la relazione, la
comunicazione, l’ascolto, l’accoglienza una medicina per l’anima di chi
soffre e come arricchimento di chi si mette in ascolto? Cosa ha da
insegnarci chi soffre?
- Quando i malati e sofferenti siamo
noi, siamo in grado di accettare la mano tesa di chi ci sta vicino?
Riusciamo a fidarci?