domenica 19 gennaio 2020

3° Incontro - La paura della Sofferenza e della Morte


LA PAURA DELLA MORTE E DELLA SOFFERENZA
“La vita è una grande sorpresa: Non vedo perché la morte non dovrebbe essere una sorpresa ancora più grande”.

La morte è qualcosa che ogni persona non è assolutamente in grado di prevedere e alla quale è impossibile sottrarsi. Nessuno sa esattamente come morirà, se in modo rapido e indolore o a seguito di una malattia lenta e dolorosa, a causa di un incidente improvviso, mentre dorme o mentre è sotto sforzo. Quindi ciascuno di noi tende a distrarsi per rimuovere questo pensiero. Eppure è strano che l’evento più certo della nostra vita venga costantemente rimosso, scompaia dai nostri discorsi per diventare qualcosa di inconfessabile, che ci inorridisce pur sapendo che sarà un appuntamento fisso nel nostro orizzonte.
Perché si ha paura della morte? Chi la teme tende a non parlarne. Il carattere spaventoso della morte è probabilmente legato al fatto che pone fine alla possibilità di vivere, di essere felici, di soddisfare i nostri desideri, raggiungere i nostri obiettivi, di poter amare. Alla morte non ci si rassegna e la paura nei confronti di essa forse nasconde altre paure quali quella del dolore fisico, della sofferenza morale, del buio, dell’ignoto, del nulla. Quindi facciamo il possibile per allontanarla, a volte anche ricorrendo a pratiche mediche estreme e perdendo il senso del limite.
Dal romanzo “La morte di Ivan Il’ic” di Lev N. Tolstoj abbiamo evidenziato alcune espressioni che ci hanno colpiti:
“Oltre alle riflessioni da quella morte suggerite a ciascuno sui trasferimenti e gli eventuali cambiamenti nel servizio che ne potevano derivare, la morte stessa di un prossimo conoscente richiamava, in quanti ne erano informati, come sempre un senso di soddisfazione che fosse toccata a lui e non a loro –Lui è morto e io sono vivo
“Il principale tormento di Ivan Il’ic era la menzogna – la menzogna chissà perché adottata da tutti – che lui fosse soltanto malato, non già sulla via di morire, e che gli sarebbe bastato star tranquillo e curarsi e allora ne sarebbe venuto tutto di bene. (…) Era questa menzogna a tormentarlo, era il fatto che non volessero riconoscere quello che tutti sapevano e che anche lui sapeva, ma mentissero invece sulla sua orribile condizione e costringessero anche lui ad aver parte alla menzogna”.
“Gli era venuto in capo che quanto gli era fin qui sembrato assolutamente inammissibile, di aver cioè vissuto non come si doveva, potesse invece essere la verità. (…) Si era provato a difendere davanti  a se stesso tutte quelle cose. E ad un tratto aveva sentita tutta l’inconsistenza di ciò che difendeva. Non c’era niente da difendere. –E se così è-si era detto- e se io lascio la vita con la coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?

…. questi i dilemmi dell’uomo che pensa alla propria morte: l’idea sempre più precisa del proprio venir meno, la menzogna legata alla negazione di una situazione evidente di morte, il senso che quanto fatto nella vita risulti vano oppure la sensazione di non aver vissuto fino in fondo la propria vita.
Del resto ogni cultura, ogni forma sociale ha utilizzato delle modalità per esorcizzare il timore nei confronti di un evento come quello della morte. Ma non per tutte le culture la morte ha dato un senso di disperazione, come invece sembra accadere nel nostro tempo, nel nostro mondo.
Si accettava la condizione mortale dell’uomo, si accettava quindi la morte, perché era chiaro ed accettato il concetto di “limite”. Inoltre quanti avevano anche una fede di tipo spirituale pensavano che la morte fosse l’inizio della vita vera o comunque un passaggio verso un altro mondo. Spesso il passaggio comportava la sottoposizione ad un giudizio.
Ci chiediamo:
  • il terrore della morte è una conseguenza della capacità dimostrata dall’uomo di superare alcuni dei limiti nei quali vive? Pensiamo alla grandi conquiste scientifiche, mediche, biologiche ecc.. Operiamo cioè una sorta di  “rimozione della morte” (Z. Bauman) fintantochè questa non sopraggiunge e ci sovrasta?
  • un’altra considerazione di tipo “morale”… la convinzione di aver vissuto una vita “in pienezza” davvero ridimensiona la paura della morte? E se sì, perché? Cosa significa?
  • consideriamo ogni giorno, ogni ora, come un dono?;viviamo con intensità e con tranquilla coscienza? Questo ci sostiene nel pensiero della morte?
  • vivere secondo l’insegnamento evangelico dà una sensazione di pienezza alla vita, le attribuisce un significato e permette di andare incontro alla morte con speranza?
La sofferenza tra esperienza umana e speranza cristiana
Il dolore e la sofferenza non sono astrazioni, ma realtà da cui non possiamo fuggire. “Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,22).
Questa frase, tratta dalla Lettera di S. Paolo ai Romani, ci indica una grande verità. La sofferenza e il dolore permeano il creato, lo avvolgono. Non è possibile pensare a una vita dove non esistano dolore e sofferenza, non è possibile pensare ad una vita perfetta. Il dolore e la sofferenza non sono astrazioni, ma realtà da cui non possiamo fuggire.
Come nell’uomo, anche per la natura troviamo il limite, non è possibile pensare a una natura illimitata. Illuminante da questo punto di vista una frase di A. Baricco, estratta dal romanzo Oceano Mare: “La natura ha una sua perfezione sorprendente e questo è il risultato di una somma di limiti. La natura è perfetta perché non è infinita. .... Perché il sistema funzioni deve finire”. La stessa vita cade inesorabilmente sotto questo giudizio. Essa è il dono più alto che ci viene fatto, ma nella sua perfezione, incorre nel limite. La preziosità e la precarietà della vita umana connotano l’esperienza di ogni persona. Due sponde necessarie, due realtà irrinunciabili.
L’uomo, ci ricorda Pascal, prova sgomento “vedendosi sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell’infinito e del nulla”.  Viviamo veramente sospesi tra i due abissi che ci descrive Pascal. Da una parte la vita mostra tutta la sua precarietà, l’insondabilità, la non-programmazione, d’altra parte paradossalmente, proprio questa precarietà la rende preziosa perché unica e irripetibile.
In una prospettiva cristiana, però, S. Paolo ci indica la via della speranza che passa attraverso la morte e la resurrezione di Cristo stesso.
Ma…
  • La sofferenza tante volte sembra non portare da nessuna parte. Non apre nuovi percorsi o nuove strade. La vita non si sta rinnovando, ma, in una maniera o nell’altra, sembra spegnersi in modo definitivo. La stanza diviene l’unico luogo dove fermare lo sguardo, il letto o la carrozzina divengono, giorno dopo giorno luoghi troppo angusti per far esplodere di nuovo la vita.
S. Francesco invece nel Cantico delle Creature (siamo nel 1224 circa…) chiama la morte “sorella”, era capace di avere con lei un rapporto di vicinanza sublime, la sentiva come parte di sé, la familiarità con essa lo toccava in profondità: “Signore, per riguardo alle mie infermità, vi chiedo soltanto di sopportarle pazientemente”. Non chiede di togliere di mezzo le sofferenze, chiede soltanto la forza di poterle sopportare.
Ci chiediamo:
  • Sentire la morte come parte di se stessi ….. ci abbiamo mai pensato? A vent’anni eravamo lontanissimi da queste considerazioni, ma adesso che tutti abbiamo abbondantemente passato i 40.. 50...?
  • non è affermazione da poco. Per San Francesco non era indice di disperazione ma consapevolezza della propria finitezza e della sua condizione di creatura che si affida. Per noi?
Parliamoci chiaro…. La morte è il contrario della vita, la prima non è giustificabile. Quante volte ho ripetuto piangendo persone care che “la morte è ingiusta” ...
Non riusciamo più a guardare in faccia il limite che queste “crude realtà” ci pongono dinanzi, tanto che, accanto all'estrema solitudine del sofferente o del morente, emerge una mentalità che non ci aiuta più a supportarle con la presenza. La sofferenza e la morte, a volte, sono consumate in uno stato di profondo isolamento.
A forza di rimuoverle, però, si rischia di non riconoscerle. Esse non sono più al centro della nostra vita, come momento di riflessione, ma rimangono ai margini e quando, purtroppo, si presentano  nella nostra vita non sappiamo più accompagnare e sostenere chi è costretto a subirne le conseguenze. (cfr il povero Ivan Ilic)
Con questo, non si deve fare l’elogio della sofferenza e del dolore, non si può cadere in una specie di “masochismo religioso” inneggiando ad essi o pensare che chi soffre si merita quella punizione. La sofferenza rimane una realtà negativa della nostra vita; non si può gioire davanti ad essa, ma l’unica strada per riscattarla a livello umano è saperla riconoscere per quello che è, guardarla in faccia.
Ci chiediamo:
  • … come è cambiata la percezione della sofferenza in ambito religioso? (ho in mente il film francese – regia Alain Cavalier- su Teresa di Lisieux, del 1986, o la vita di alcuni santi per i quali la sofferenza è legata all’incontro con Cristo).
  • Non pensiamo piuttosto che la scienza sia la vera fede di oggi, poiché riteniamo che solo essa sia in grado di scacciare la sofferenza e di farci morire “bene”?
La sofferenza e i giovani
Sembrano impermeabili a tutto e, quando sono toccati dalla sofferenza o dalla morte, vivono emozioni intense ma rapide. Queste realtà non entrano a far parte di una riflessione costante e duratura. Il loro mondo non è toccato da tutto ciò, anzi, niente sembra mettere in discussione questa realtà fatta di spensieratezza e leggerezza.
Anche noi adulti, però, non sappiamo più accompagnare i giovani in questa riflessione. La conseguenza immediata è che non riescono a sostare davanti al limite, tutto diventa possibile, tutto diventa superabile e corrono il rischio di rispondere al dolore degli altri con estrema insensibilità.
Ci chiediamo:
  • È possibile accompagnare intere generazioni con l’idea che la morte non esista o che il dolore possa essere sempre evitato (uso di droghe, o buttandosi nel divertimento a tutti i costi?). Continuando così, non aumentiamo l’indifferenza e l’insensibilità nei confronti del dolore proprio e altrui?
Il paradosso della croce
La Sofferenza e il dolore sono le esperienze più paradossali della nostra vita. È difficile trovare parole adeguate in grado di esprimere il senso e la ragione di realtà che interferiscono profondamente con il nostro quotidiano, cambiando, a volte, completamente l’esistenza. Parlare della croce è difficile, spesso si rischia di usare parole ovvie e consolatorie, che sono sempre inadeguate e banali per la persona che soffre. Diceva Giovanni Paolo II a migliaia di giovani nell’Aprile del 1988: “la croce è iscritta nella vita dell’uomo, volerla escludere dalla propria esistenza è come volere ignorare la realtà della condizione umana. E così, siamo per la vita, eppure non possiamo eliminare dalla nostra vita personale la sofferenza e la prova…”
Non possiamo, quindi, partendo da quest’ultimo passaggio evitare il confronto con l’esperienza cristiana. Dio per noi cristiani non è rimasto a guardare dal cielo l’umanità che soffre, ma ha mandato il suo figlio, Gesù Cristo, a condividere con l’uomo la sofferenza e persino la morte.
Ci chiediamo:
  • Gesù non ha amato la croce e la sofferenza ad essa connessa. Ma nemmeno lui, quando ha rivestito la condizione umana, ha potuto esimersi dall’affrontarla, insegnandoci piuttosto a riconciliarci con i nostri limiti, dando dignità alla sofferenza.
  • Ok la morte, ma perché la sofferenza, oggi? Oggi c’è un’etica del fine vita (es. suicidio assistito) che può scontare la sofferenza, ricorrendo al criterio del “diritto a morire” (v. intervento di Umberto Veronesi)… cosa ne pensiamo?
  • pensiamo alla sofferenza dell’innocente, del bimbo malato.. non consideriamo un gesto di pietà pensare di sopprimerli?
L’uomo dei dolori che ben conosce il patire
Gesù stesso – e non è stato facile nemmeno per lui… - si pone come l’uomo del dolore, che ben conosce la sofferenza. Diventando “uomo dei dolori”, egli ha stabilito una nuova solidarietà di Dio con le sofferenze umane. Figlio eterno del Padre, in comunione con lui nella sua eterna gloria, nel farsi uomo si è ben guardato dal rivendicare privilegi di gloria terrena o almeno di esenzione dal dolore, ma è entrato nella via della croce, ha scelto come sua parte le sofferenze non solo fisiche ma anche morali che lo accompagnano fino alla morte: tutto per nostro amore, per dare agli uomini la dimostrazione decisiva del suo amore, per riparare al loro peccato.
Lì sul Golgota Gesù compie per amore il suo ultimo gesto. Si dona fino in fondo, senza riserve, l’uomo dei dolori affida tutta la sua esistenza al Padre. È l’ultimo atto di una vita dedicata agli altri e specialmente a quelli che soffrono e sono relegati ai posti più infimi della società.
Ci chiediamo:
·         Gesù dunque ha sofferto, ma non per stabilire che solo soffrendo ci si salva. Il Signore infatti guarisce e lenisce la sofferenza di chi incontra  nella sua predicazione (ciechi, paralitici ecc…). Perchè?
·         Molto spesso Gesù ha steso la mano, ha protetto, guarito, si è intrattenuto mostrando compassione,anche opponendosi alle discriminazioni sociali del suo tempo. Solo chi ha sofferto più essere partecipe della sofferenza degli altri. Viene in mente Sap 1,13-15Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano”… ma di quale vita si tratta?
·         Gesù si commuove davanti alla sofferenza ed alla morte dell’amico Lazzaro. Proviamo a pensare ad un Dio che “si commuove profondamente e si turba” per la morte corporale dell’uomo…
Come non sentirlo vicino, inoltre, nel momento di maggiore dolore, come quando sta per morire “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Scrive C. Rocchetta nel libro Teologia della tenerezza a p. 249: “È certo che in quell’attimo Gesù non ha più nulla che gli appartenga o possa dire suo. Dopo aver offerto tutto, il suo corpo e il suo spirito, la sua vita e la sua morte, il passato, il presente e il futuro, vive ora la situazione più terribile: sentirsi solo, non sperimentare la filialità unica che lo fa essere una sola cosa col Padre al punto da avvertire la propria condizione al limite del vuoto o dell’insignificanza… Una simile “notte dello spirito” è superata non cancellandola o rimuovendola, ma accettandola e vivendola fino in fondo, bevendo il calice della passione fino all’ultima goccia”.
Quante persone, pur avendo una fede immensa, si sentono perdute, abbandonate, si domandano dove Dio sia finito. Nella lunga notte della sofferenza è difficile sperare: il legame che pensiamo di avere costruito con Dio può sparire in poco tempo.
Ma è proprio in quel frangente che il sofferente ha più bisogno di vicinanza, di presenza, e diviene indispensabile recuperare quel legame per non restare solo e rendere più docile la morte.
Prima della sua Passione, distaccandosi dai suoi discepoli aveva pregato dicendo: “Padre, se vuoi,allontana da me questo calice, tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua” (Lc 22,42).
“Nell’orazione, seppure breve, per ben due volte egli sottolinea la richiesta dell’allontanamento del calice della volontà paterna… Sebbene vada incontro ad una morte violenta e ingiusta, egli non dubita della volontà del Padre e si rende disponibile a fare la sua volontà, affermando come primario non il proprio desiderio, ma il piano divino…”
Gesù non è, dunque, un autolesionista, non vuole morire, anzi chiede al Padre di allontanare quel calice. Gesù rimane solo, abbandonato anche dai suoi discepoli. Non sono capaci di seguire Gesù in questo momento così triste. Invitati dallo stesso a vegliare, gli apostoli si addormentano.
C’è un elemento di fondamentale importanza: la preghiera. La tentazione di sottrarsi all’incombente minaccia di sofferenza e di morte non avrà presa sull’umanità di Gesù, perché egli vive questa minaccia incombente e reale dall’interno della sua consapevole ed esplicita relazione con il Padre. La preghiera, dunque, non evita, come in un rito scaramantico, tentazione o sofferenza, ma non ci lascia da soli di fronte all’incombere di queste tristi realtà. La preghiera acquista il senso di una lotta per comprendere la volontà del Padre anche all’interno di un destino difficile e angosciante. Gesù non vuole andare a morire, ma la preghiera gli fa comprendere come egli sia chiamato a intraprendere questa strada, invitando i discepoli a seguirlo. Ha riposto la sua vita nelle mani del Padre con fede e speranza.
Ci chiediamo:
  • abbiamo pensato o abbiamo sperimentato il valore della preghiera nell’ambito della sofferenza? Cosa ci aspettiamo dalla preghiera? Quando ricorriamo ad essa? Quando abbiamo toccato il fondo?
Lo vide e ne ebbe compassione – l’accompagnamento nella sofferenza
L’espressione più alta di come sostenere e accompagnare la sofferenza, però, la troviamo nella parabola del Buon Samaritano. L’episodio è raccontato da Gesù nel contesto di un colloquio con un maestro della legge che gli chiedeva quale fosse il metodo per ereditare la vita eterna.
Un dottore della legge, abituato alle sottigliezze della scuola rabbinica, si alza tra la folla e lo interroga: Maestro, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?. La risposta di Gesù è immediata: “Che cosa sta scritto nella legge? Che cosa vi leggi?”. Dopo un momento l’interlocutore recita a memoria: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. Ribatte Gesù: “Hai risposto bene; fa questo e vivrai”.  Il dottore incalza: E chi è il mio prossimo?
Ogni uomo che si trova nel bisogno, al di là dei connotati della nazionalità, di livello sociale, di ideologia o di religione. Ignorarlo, voltargli le spalle, passare oltre, come il sacerdote e il levita, è non riconoscere la sua dignità umana. “Lo vide e ne ebbe compassione…”. Gesù indica una strada precisa per poter star a fianco alla sofferenza.
Dio non è sofferenza. La volontà di Dio è che noi operiamo, al limite delle nostre possibilità, per il sollievo delle sofferenze del mondo e dell’uomo.  Il disagio è spesso più forte della volontà di impegnarsi in un cammino irto e complesso. Lo vide e ne ebbe compassione. Rischio: “Se mi fermo per aiutare quest’uomo che potrà succedermi?”
Ci chiediamo:
  • riteniamo la relazione, la comunicazione, l’ascolto, l’accoglienza una medicina per l’anima di chi soffre e come arricchimento di chi si mette in ascolto? Cosa ha da insegnarci chi soffre?
  • Quando i malati e sofferenti siamo noi, siamo in grado di accettare la mano tesa di chi ci sta vicino? Riusciamo a fidarci?

1° Incontro - La paura della Solitudine


DEFINIZIONI (da http://www.treccani.it/):
solitùdine s. f. [dal lat. solitudo -dinis, der. di solus «solo»]. –
1 . La condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggera o duratura …

LA SOLITUDINE IN ITALIA
Il tessuto sociale italiano ed europeo nel corso degli anni si è trasformato in una direzione chiara: a causa della bassa natalità, dell’invecchiamento, della crescita di separazioni e divorzi, dell’aumento di popolazione immigrata sola, del numero contenuto di matrimoni, le famiglie sono molto numerose ma sempre più piccole.
Rapporto Istat 2018: In Italia il numero medio di componenti per famiglia è di 2,4 persone, il 31,6% dei nuclei è composto da una persona sola, le coppie con figli sono il 53,3%, quelle senza il 31,5, il 15% delle famiglie è costituito da un solo genitore (per lo più madre) con figli; emerge un Paese in cui persistono gravi fenomeni di emarginazione e isolamento, di persone che per fragilità soggettiva o oggettiva non hanno la capacità o la possibilità di ‘fare rete’ e che un ridotto sistema di welfare non riesce a sostenere e integrare.


SOLITUDINI
Mai come in questi ultimi dieci anni si è parlato di comunicazione, di scambi, di interattività, e ma anche di solitudine, isolamento e depressione.
Sono tanti i tipi di solitudine:
·         Forzata: imposta da fatti esterni (prigionia, handicap, lutto, geografica, ...)
·         Ricercata: tempo breve desiderato, ma difficile da ritagliare per sè (creativo, asceta,…)
·         "Politica sociale": I mezzi di comunicazione invitano a distinguersi esprimendo modi di vita unici che accentuano l’individualismo. Tali situazioni si sviluppano soprattutto nelle grandi città, dove comunque la diffidenza verso gli altri (“sindrome da ascensore”) pur nella ricchezza dei contatti possibili e degli incontri in gruppi ed associazioni, può generare un senso di solitudine anche in mezzo alla gente.
·         Tecnologica: Nell'utilizzo delle tecnologie di comunicazione (chat, social network) si creano relazioni virtuali, nelle quali a volte senza conoscere nella realtà il nostro interlocutore, ci si può illudere che questo surrogato di dialogo sia equivalente ad un incontro.Anche il computer - strumento di lavoro e di svago - può trasformarsi in una cella di isolamento specie per persone già isolate forzatamente; non a caso si tratta di un Personal ... Computer, dove la persona nascosta dietro ad un monitor talvolta si illude di comunicare, con gli altri
·         Adolescenziale: In questa fase per i ragazzi la creazione di un’identità stabile è importante quanto difficile, in un mondo veloce ed esigente in continua evoluzione, spesso incompreso dalla famiglia, dove non sempre ci sono guide e punti di riferimento e dove molti adolescenti soffrono l'assenza dei genitori (separati/divorziati/lavoratori), talvolta confortati solo da oggetti che sono di fatto solo un surrogato dell'affettività mancata.
Attenzione! Quando la solitudine si trasforma in disagio/patologia spesso si cerca rifugio in varie forme di dipendenza: farmaci, fumo, droga, cibo, alcool, televisione, internet.
·         Vecchiaia e malattia: La solitudine (forzata) accorcia la vita e riduce la salute: La malattia è causa di solitudine. Nella vecchiaia l'isolamento e l'emarginazione, anche in istituiti e case di cura, favoriscono sentimenti di solitudine, abbattimento e depressione.
·         Famigliare: quando il rapporto è in crisi, quando c'è poco dialogo e/o scarsa comunicazione, quando il tempo di vita e del lavoro sono inconciliabili, ...
La solitudine non ha età e non ha condizione sociale, si può insinuare in ognuno di noi, ma solo se siamo soli.


LA BELLEZZA DELLA SOLITUDINE:
<<L'unica differenza che noto fra oggi e un tempo è l'aver imparato che la solitudine del mio cuore è la mia salvezza. Il dolore era dato dal ritenere d'aver bisogno di una qualche forma di conferma da parte del mondo esterno. Le risposte che cerchiamo fuori da noi per placare quel apparentemente insaziabile bisogno di essere visti, amati e confermati, quando non trovano riscontri positivi ci gettano nello sconforto, in un profondo senso di isolamento e annientamento. Quando ho visto che quel bisogno nasceva da un senso di insufficienza e mancanza artefatto, instillato dall'ambiente esterno, e non da una mia reale condizione interiore, ho smesso di percepire il dolore dell'isolamento mentale e ho scoperto la bellezza dell'essere soli.>>
da La libertà nella solitudine.
LA SPERANZA CRISTIANA RISPOSTA ALLE PAURE DELL’UOMO DI OGGI :
Anche se <<il nostro secolo si è aperto sotto i migliori auspici: la fine dello scontro delle ideologie, la connessione planetaria>> un mondo <<in cui le nuove tecnologie avrebbero giocato un ruolo fondamentale>> <<Ciò nonostante oggi l'uomo ha sempre, di più, bisogno di salvezza, di dignità e di relazione, perché disperazione, umiliazione e solitudine sembrano talvolta avere il sopravvento.>>
Nel cristianesimo la risposta alla paura è la speranza; tenace, che si fonda sulla certezza e che è sempre pronta a ripartire, alzare il capo e ricostruire, che non si dà per vinta ma è capace di visione e di futuro.
<<La speranza guida la fede e la carità operosa, le quali sarebbero svuotate senza di essa, prive del significato profondo del loro essere: cosa sarebbe la fede se non coltivasse la speranza della salvezza, e cosa farebbe la carità lasciata sola contro il male del mondo?>>
<<La speranza è un rischio da correre, anzi è il rischio dei rischi>>.
<<La speranza, non nasce dall'uomo>> <<è intesa come una chiamata gratuita che parte dalla rivelazione di Dio>> <<La speranza cristiana non sorge nel momento del bisogno, della sofferenza o dello sconforto determinato da diverse motivazioni>> <<al contrario, ha come compagne di viaggio che non l'abbandonano mai la fede e la carità. Essa sorge dalla fede e si nutre dell'amore. Senza questa circolarità non sarebbe possibile comprendere la specificità del sperare credente che vive di certezza e non di delusione.>> <<Essendo certezza del compimento della promessa, la speranza cristiana non delude perchè affonda le sue radici nell'amore (Rm 5,5)>>
Tutti possono sperare, ma è il contenuto della speranza che qualifica l'atto e lo fa comprendere diverso dal sentimento.


SPERANZA E SOLITUDINE NELLA FEDE:
Anche i discepoli poco dopo aver incontrato Gesù, nell'incertezza della tempesta notturna che li raggiunge si sentono soli e abbandonati perdendo la speranza al punto da non riconoscerLo: "nel vederlo camminare sul mare furono turbati e dissero: È un fantasma, e si misero a gridare dalla paura" (Mt 14,26).
Gesu invece sperimenta una particolare solitudine: "congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare; venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù" (Mt 14,23). Gesù riuscì sempre a scoprire nella sua solitudine la presenza rassicurante del Padre, nei silenzi come nelle prove, persino nell'ora della morte quando si trovò completamente solo.
C’era qualcosa di affascinante nella preghiera di Gesù, al punto che un giorno i suoi discepoli hanno chiesto di esservi introdotti.
Signore insegnaci a pregare (cfr Lc 11,1) e allora che Gesù trasmette loro il “Padre nostro”: chiamandolo Padre ci pone in una relazione di confidenza con Lui, come un bambino che si rivolge al suo papà, sapendo di essere amato e curato da lui. Il mistero di Dio, che sempre ci affascina e ci fa sentire piccoli, però non fa più paura, non ci schiaccia, non ci angoscia.


SEGNI DI SPERANZA … COME REAGIRE ALLA SOLITUDINE?
Gratitudine.
È l’attitudine di chi riconosce che ciò che si è ottenuto non lo è stato solo per i propri meriti, ma anche per la benevolenza altrui, anche se è difficile ammetterlo a causa dell’orgoglio. La gratitudine è andare incontro, riconoscendosi debitori, camminare verso l’altro per intrecciare un abbraccio. Per combattere la solitudine è necessario esprimere questo sentimento anche quando può essere faticoso per l’ipertrofia dell’io; se l’altro percepisce una naturale, reale disposizione alla gratitudine sarà più facile costruire efficaci momenti di relazione.
Felicità. Qual è la felicità che cerchiamo e come, da questa ricerca possiamo arrivare a sistemi di relazioni sociali che corrispondano alle nostre più autentiche esigenze? È una felicità generosa, aperta agli altri, che trova nella comunità il modo migliore per esprimersi, perché così riceve risposte adeguate. Una felicità assoluta, slegata da relazioni, è il patrimonio di qualche santo che vive il sentimento in relazione con il Signore; tutti noi, invece, abbiamo bisogno della felicità indotta dal donare, anche se talvolta il nostro gesto non riceve compensi adeguati.
Ascolto. Viviamo troppo spesso parlando di noi, svilendo l’ascolto dell’altro. Viviamo come se fossimo soli nell’universo. Il non essere ascoltati crea risentimento negli altri, che chiudono orecchie e cuori. La solitudine modifica le risposte all’ambiente umano circostante, il più delle volte aumentando la negatività e l’aggressività e quindi riducendo la possibilità di creare assieme qualche cosa di rilevante per tutti. È un circolo vizioso, che si può rompere imponendosi l’ascolto, per comprendere il punto di vista degli altri; ma se si sente il dovere dell’ascolto significa che gran parte del percorso verso la relazione è già stato compiuto e la solitudine sconfitta.
Curiosità. È ritenuta una dote ambivalente, ma ha il grande pregio di costringere a guardare dentro nella vita degli altri, in modo da identificare gli spazi sui quali impostare una relazione. Mediamente chi è curioso non è mai solo, perché comprende dove può avvenire l’incontro tra la propria vita, aspirazioni, attese, speranze e quelle dell’altro. Possono essere possibili incomprensioni e chiusure, ma non giustificano una scelta generale. La curiosità come premessa per costruire rapporti deve essere un atteggiamento stabile nella vita, in qualsiasi condizione; quando l’individuo va in palestra, ad esempio, gli esercizi fisici dovrebbero essere altrettanto importanti che l’attenzione ai vicini, per comprenderne attitudini e attese, desideri di relazione o chiusure. La curiosità è strutturale alla persona intelligente; solo uno stato depressivo può tarparla e farla sembrare inutile.
Rinuncia ad atteggiamenti individualistici. L’attenzione, sempre più diffusa negli ultimi anni, verso fitness, atteggiamenti di autocura, preoccupazioni alimentari, in generale verso particolari atteggiamenti salutisti, polarizza l’attenzione su fatti personali; sono vissuti come atti che dovrebbero garantire la salute in maniera distaccata da quella degli altri. Sono talvolta il frutto di frustrazioni egocentriche che si approfondiscono nel tempo e impediscono rapporti aperti e generosi. Ogni persona è libera di scegliere propri modelli di vita, gestendone le conseguenze; non può però essere trascurato che tra queste ultime vi sono incomprensioni che rallentano la relazione con altri.
Gentilezza. Tutte le caratteristiche indicate sopra hanno un denominatore comune per essere esercitate; è una dote dell’animo che caratterizza la scelta di fondo di porsi davanti all’altro con la volontà di ascoltare ed essere ascoltati senza prevaricazione, insistenza, desiderio di potere. Chi è gentile è sempre attento a come l’altro si avvicina e pronto a modificare il proprio atteggiamento per farsi accettare, compiendo piccoli atti che assumono grande importanza quando l’altro è solo. Chi è gentile potrà talvolta essere incompreso e dolersene, però il suo atteggiamento contribuisce sempre ad aprire strade per la relazione che allontana la solitudine. In alcuni casi la gentilezza è premessa per la dolcezza, modo di essere che, ad esempio nella famiglia, permette di continuare nel tempo rapporti di affetto che aiutano anche a superare le crisi.>>

lunedì 25 novembre 2019

2° Incontro: La paura della diversità


La paura della diversità

(Le scelte importanti non siano condizionate dalla paura)


Perchè la paura esiste


  • Dobbiamo tornare sul termine paura. Essa è una condizione emotiva che fa perdere lucidità: c’è chi scappa e chi si impietrisce. Nasce anche da una componente biologico-evolutiva, ok.
  • Sensazione che qualcosa minacci la nostra esistenza o la nostra integrità biologica o quella delle persone a noi più vicine. L’emozione della paura si proietta nel futuro: qualcosa di brutto accadrà a noi o agli altri, pertanto spinge il soggetto ad aggredire per eliminare o allontanare l’oggetto della paura (condotte aggressive) o al contrario fuggire da questo per evitare il danno che potrebbe procurarci (condotte di evitamento dall’oggetto fobico).



Consapevoli che la paura è in noi

  • Paura è una condizione che varia anche nellintensità. Essa influenza le nostre decisioni.
  • Oggi, almeno alle nostre latitudini terrestri, la paura non è più strettamente legata al pericolo immediato ed alla sopravvivenza, ma sono in atto da tempo meccanismi sottili di persuasione che inducono la paura. Sono meccanismi che toccano le nostre certezze consolidate per affermare che hanno una fine e che le previsioni di ciò che potrebbe accadere sono tutte negative. sinsinua un senso di impotenza davanti allincertezza.
  • questa è una paura che mina la nostra serenità e ci rende manipolabili, e possibili ferventi sostenitori di chi ci offre modi facili, infallibili per tutelare il nostro futuro e le nostre cose … è come se ci fosse offerto un salvagente a cui aggrapparci!

Possiamo fare in modo che la paura non guidi le 

nostre scelte?
  • diceva il Patriarca Cè in qualche suo scritto che se un uomo è sereno con se stesso e in armonia con ciò che lo circonda è meno soggetto alle paure. Una persona che domina le proprie paure compie scelte con maggiore libertà
  • . la paura del diverso nasce forse dal fatto che non riusciamo più ad avere un “sano conflitto” nella convivenza tra persone e nella società? Un dialogo anche duro tra persone presuppone infatti il rispetto per il proprio interlocutore ….
  • abbiamo cercato di capire quale può essere l'atteggiamento migliore da assumere con gli altri : non tanto quello di dover “vincere” oppure “negare” le paure, quanto piuttosto quello di contribuire a diminuire le paure nostre e degli altri (ad esempio dei nostri figli...); non essere noi fonte di paura.
  • Abbiamo pensato che a questo proposito, la Chiesa forse non è stata un buon esempio. Secondo interpretazioni storiche molte paure sono state alimentate dalla Chiesa nei secoli passati: pensiamo alla paura del peccato e della condanna all'inferno. Pensiamo all'idea di un Dio giustiziere vendicativo, anziché compassionevole e misericordioso.
  • Ma anche oggi, ci chiediamo, l'idea del Dio misericordioso finisce per non rassicurare (pensiamo alle critiche mosse all'attuale papa) alcuni fedeli, proprio perché apre a tutti, accoglie tutti? Non viene a ledere le nostre certezze, i nostri egoismi?
  • e allora … dobbiamo stare attenti a non confondere le cose. parafrasando una celebre frase evangelica.... diamo alla paura ciò che è della paura e all’egoismo ciò che è dell’egoismo! Dobbiamo ammettere che c’è un egoismo “di base”, culturale, che ci porta ad escludere a tagliare fuori anche chi è simile a noi, quando lede nostri interessi; le paure non devono rappresentare una scusa per nascondersi davanti alle proprie responsabilità verso i fratelli più prossimi ….
Facciamo degli esempi
Nel quotidiano della nostra vita esiste una condizione in comune che ci coinvolge sempre: la diversità. Ognuno di noi è diverso dall’altro e, anche se siamo sempre in contatto con chi vive vicino a noi, spesso lo definiamo con il termine di “diverso”.
Pensare al “diverso da sé” spaventa nel momento in cui si insinua il pensiero che quella diversità può nuocere ai nostri interessi o alle nostre posizioni consolidate , oppure ha la capacità di modificare in modo per noi non controllabile la nostra vita sociale o individuale.
La paura della diversità: l’etimologia della parola significa che siamo in presenza di caratteristiche, tratti, identità, tali da non essere conformi e quindi diversi da un soggetto all’altro se pur identificabili nella medesima tipologia. Parliamo, ad esempio, dell’orientamento sessuale, di condizione di disabilità psicofisica, di un credo religioso, fino a toccare l’etnia degli esseri umani.
Ma perché proviamo cosi tanta paura per chi consideriamo diverso da noi? Ci spaventa quello che non conosciamo e mettiamo in atto strategie difensive per evitare di entrare in contatto con la diversità. Ci manca la capacità di comprensione e tendiamo a cercare ciò che è più simile ai nostri canoni estetici, esistenziali, alle nostre credenze, come unico modello possibile di vita. Ogni altra caratteristica, che fuoriesce dalla norma in cui ci riconosciamo, viene etichettata, stigmatizzata e definita “anormale”. 
Presentiamo di seguito alcune paure riferite alla diversità

A) La paura della disabilità

Si può essere ostili verso la disabilità? Sembra impossibile nell’era dei diritti umani, eppure è così, perché la disabilità altrui ci ricorda la nostra disabilità. La disabilità spaventa ed è normale come prima reazione in certi casi; ma spesso è una reazione indotta culturalmente e che soprattutto deve trovare una risposta culturale, prima ancora che nelle leggi.
Tendiamo a chiamare “diversamente abile” chi è in una condizione di disabilità (un handicap fisico o psicofisico) per cercare di avvicinarlo nella sua condizione di invalido (es. non muove le gambe) a noi, a chi è autonomo e cammina senza nessuna difficoltà. Così possiamo dire siamo uguali, non siamo così diversi e la discriminazione non ha più senso. Una soluzione che in realtà non lo è. Non è così che si arriva ad una vera inclusione e accettazione.
  • Quali sono i luoghi in cui incontriamo la disabilità? In che contesti viviamo la paura per la disabilità?
  • In base alla nostra esperienza , nella scuola, ad esempio, ma anche in altri settori sociali (disoccupazione, ecc) le tutele e l’assistenza che le norme prevedono per i disabili (le certificazioni) sono un buon sistema per etichettare le diversità e così “rassicurare” il sistema fatto di persone “normali”? Oppure offrono delle opportunità di apprendimento ed integrazione dei ragazzi?
  • Oltre a quello che può/deve fare l’assistenza pubblica (il c.d. stato sociale) c’è un livello di relazione personale che dobbiamo curare maggiormente? Come dice Levinas … dare sempre un volto all’altro? E vedere nell’altro il volto dell’unico Dio?
B) La paura del “Gender”..
Ovvero … paura, diffidenza per le manifestazioni sull’identità “di genere” strane, non codificate, non consuete. Ritenute moralmente discutibili se associate ad una vita sessuale “non conforme” ai canoni tradizionali (eterosessualità e matrimonio). l’idea che passa è quella della sregolatezza e trasgressione che sfuggono al controllo delle convenzioni consolidate.
Si dice: “La società che era il nostro fondamento si sta dissolvendo, nemmeno il sesso si salva …”.
Paura di un mondo che nella sua imprevedibilità ci mette ansia, perché il futuro nostro o dei nostri figli, può nascondere minacce e incognite.
  • Si tratta di una paura concreta che si traduce in azioni? Conosciamo alcuni esempi di ostilità verso questo pensiero?
  • Su questo tema nutriamo delle paure che possono riguardare il futuro dei nostri figli? Temiamo per quelle che potranno essere le loro scelte?
«l’identità di genere è un processo che comincia con la consapevolezza di appartenere all’uno o all’altro sesso e che lungo l’arco della vita subisce continui aggiustamenti e ridefinizioni. Il ‘genere’ è una costruzione sociale e non un dato biologico immutabile».

Sono argomenti che si possono affrontare con la dovuta serietà scientifica evitando stereotipi, discriminazioni e i tanti pregiudizi ricavati dalla non conoscenza dell’argomento. La diversità è tutto ciò che non siamo noi. 
Perché giudicare ‘diverso’ chi è semplicemente normale, se conformato al resto dell’umanità? Commettiamo un errore nell’attribuire alla parola “diverso” un significato negativo. Una paura che subiamo per il semplice fatto che sono gli altri a farcela provare. Il diverso fa paura perché non lo “conosciamo” e non vogliamo conoscerlo.

C) La xenofobia

Nessuno nasce odiando qualcun altro per il colore della pelle, il suo ambiente sociale o la sua religione. Le persone odiano perché hanno imparato a odiare, e se possono imparare a odiare possono anche imparare ad amare, perché l’amore arriva in modo più naturale nel cuore umano che il suo opposto”. Queste parole sono di Nelson Mandela e ci devono far riflettere.

Un nuovo modo di pensare all’altro senza paure: l’antropologia della condivisione

Proponiamo alcune considerazioni che ci sono piaciute perché secondo noi hanno il pregio di ridimensionare le paure (o i nostri egoismi?) partendo proprio da una differente impostazione culturale ed etica.
L’espressione “centralità dell’io” pone come valore assoluto l’autoaffermazione di sé, e questa è stata la filosofia che ha dominato tutto il secolo scorso con le conseguenze estreme che la storia ci ha dimostrato.
Siamo diventati forse prigionieri di una visione antropologica che ritiene naturale l’avere invece del condividere, la competizione invece della solidarietà, la privatizzazione invece della corresponsabilità, individualismo invece della comunione.
Abbiamo sperimentato nella storia che il dominio dell’IO può portare ad aberrazioni a soprusi. Se le paure prevaricano la nostra vita
Forse dovremmo considerare (come sta avvenendo tra pensatori contemporanei) che un vero cambiamento storico si può raggiungere solo attraverso un cambiamento dei rapporti umani e dunque attraverso una svolta culturale. Bisogna incominciare a ripensare ad un discorso sull’uomo che spezzi il cerchio del dominio sulla natura sulle cose sull’altro uomo.
La necessità di riscoprire la bellezza del creato in cui siamo stati posti, il rispetto e la valorizzazione delle diversità e delle differenze, la scoperta del significato del “prendersi cura di”.
Significa che:
  • essere nel mondo non significa semplicemente vivere nella natura e nella realtà, vuol di re di più: coesistere, convivere, costruire il proprio essere attraverso una comunione di relazioni con le cose e con gli altri
  • la dimensione dell’altro diventa un valore! Il volto dell’altro è un continuo appello alla nostra coscienza a fare una scelta di fondo (una conversione) : o il nostro egoismo la nostra responsabilità per le sorti dell’altro da me.
  • Etica della responsabilità. La coscienza è uno dei concetti fondamentali della filosofia occidentale, è alla base della visione dell’uomo… il famoso “conosci te stesso”. Da questo concetto il pensiero ha sviluppato altri concetti: quello che le norme etiche trovano fondamento nella ragione, e quello di “autonomia” dell’uomo. l’uomo che crea la propria legge.
  • Ma se solo partiamo dalla constatazione che nasciamo in un mondo pieno di Altri da noi che ci hanno preceduto e generato… se siamo nati creature… vuol dire che viviamo nella relazione.
  • Allora il rapporto Io -Altro deve essere bilanciato: depotenziare un po' sé e mettersi in relazione.


per riflettere …
  • Quante altre “diversità” ci vengono alla mente oltre a quelle indicate ? come le affrontiamo?
  • Esempio: in casa ci si trova a parlare linguaggi che sembrano incomprensibili: è possibile costruire un dialogo aperto che rispetti e accolga i diversi punti di vista e metta al primo posto la relazione e l’arricchimento reciproco?
  • Proviamo a cambiare prospettiva secondo un approccio di responsabilità verso l’altro partendo da una situazione che abbiamo in mente …..

COSA CI INSEGNA IL VANGELO?

Mt 14,22-33
In quel tempo, 22 subito dopo l'episodio dei pani, Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull'altra riva, finché non avesse congedato la folla. 23 Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. 24 La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25 Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26 Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27 Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». 28 Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29 Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30 Ma, vedendo che il vento era forte, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31 E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32 Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33 Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».