domenica 19 gennaio 2020

3° Incontro - La paura della Sofferenza e della Morte


LA PAURA DELLA MORTE E DELLA SOFFERENZA
“La vita è una grande sorpresa: Non vedo perché la morte non dovrebbe essere una sorpresa ancora più grande”.

La morte è qualcosa che ogni persona non è assolutamente in grado di prevedere e alla quale è impossibile sottrarsi. Nessuno sa esattamente come morirà, se in modo rapido e indolore o a seguito di una malattia lenta e dolorosa, a causa di un incidente improvviso, mentre dorme o mentre è sotto sforzo. Quindi ciascuno di noi tende a distrarsi per rimuovere questo pensiero. Eppure è strano che l’evento più certo della nostra vita venga costantemente rimosso, scompaia dai nostri discorsi per diventare qualcosa di inconfessabile, che ci inorridisce pur sapendo che sarà un appuntamento fisso nel nostro orizzonte.
Perché si ha paura della morte? Chi la teme tende a non parlarne. Il carattere spaventoso della morte è probabilmente legato al fatto che pone fine alla possibilità di vivere, di essere felici, di soddisfare i nostri desideri, raggiungere i nostri obiettivi, di poter amare. Alla morte non ci si rassegna e la paura nei confronti di essa forse nasconde altre paure quali quella del dolore fisico, della sofferenza morale, del buio, dell’ignoto, del nulla. Quindi facciamo il possibile per allontanarla, a volte anche ricorrendo a pratiche mediche estreme e perdendo il senso del limite.
Dal romanzo “La morte di Ivan Il’ic” di Lev N. Tolstoj abbiamo evidenziato alcune espressioni che ci hanno colpiti:
“Oltre alle riflessioni da quella morte suggerite a ciascuno sui trasferimenti e gli eventuali cambiamenti nel servizio che ne potevano derivare, la morte stessa di un prossimo conoscente richiamava, in quanti ne erano informati, come sempre un senso di soddisfazione che fosse toccata a lui e non a loro –Lui è morto e io sono vivo
“Il principale tormento di Ivan Il’ic era la menzogna – la menzogna chissà perché adottata da tutti – che lui fosse soltanto malato, non già sulla via di morire, e che gli sarebbe bastato star tranquillo e curarsi e allora ne sarebbe venuto tutto di bene. (…) Era questa menzogna a tormentarlo, era il fatto che non volessero riconoscere quello che tutti sapevano e che anche lui sapeva, ma mentissero invece sulla sua orribile condizione e costringessero anche lui ad aver parte alla menzogna”.
“Gli era venuto in capo che quanto gli era fin qui sembrato assolutamente inammissibile, di aver cioè vissuto non come si doveva, potesse invece essere la verità. (…) Si era provato a difendere davanti  a se stesso tutte quelle cose. E ad un tratto aveva sentita tutta l’inconsistenza di ciò che difendeva. Non c’era niente da difendere. –E se così è-si era detto- e se io lascio la vita con la coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?

…. questi i dilemmi dell’uomo che pensa alla propria morte: l’idea sempre più precisa del proprio venir meno, la menzogna legata alla negazione di una situazione evidente di morte, il senso che quanto fatto nella vita risulti vano oppure la sensazione di non aver vissuto fino in fondo la propria vita.
Del resto ogni cultura, ogni forma sociale ha utilizzato delle modalità per esorcizzare il timore nei confronti di un evento come quello della morte. Ma non per tutte le culture la morte ha dato un senso di disperazione, come invece sembra accadere nel nostro tempo, nel nostro mondo.
Si accettava la condizione mortale dell’uomo, si accettava quindi la morte, perché era chiaro ed accettato il concetto di “limite”. Inoltre quanti avevano anche una fede di tipo spirituale pensavano che la morte fosse l’inizio della vita vera o comunque un passaggio verso un altro mondo. Spesso il passaggio comportava la sottoposizione ad un giudizio.
Ci chiediamo:
  • il terrore della morte è una conseguenza della capacità dimostrata dall’uomo di superare alcuni dei limiti nei quali vive? Pensiamo alla grandi conquiste scientifiche, mediche, biologiche ecc.. Operiamo cioè una sorta di  “rimozione della morte” (Z. Bauman) fintantochè questa non sopraggiunge e ci sovrasta?
  • un’altra considerazione di tipo “morale”… la convinzione di aver vissuto una vita “in pienezza” davvero ridimensiona la paura della morte? E se sì, perché? Cosa significa?
  • consideriamo ogni giorno, ogni ora, come un dono?;viviamo con intensità e con tranquilla coscienza? Questo ci sostiene nel pensiero della morte?
  • vivere secondo l’insegnamento evangelico dà una sensazione di pienezza alla vita, le attribuisce un significato e permette di andare incontro alla morte con speranza?
La sofferenza tra esperienza umana e speranza cristiana
Il dolore e la sofferenza non sono astrazioni, ma realtà da cui non possiamo fuggire. “Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,22).
Questa frase, tratta dalla Lettera di S. Paolo ai Romani, ci indica una grande verità. La sofferenza e il dolore permeano il creato, lo avvolgono. Non è possibile pensare a una vita dove non esistano dolore e sofferenza, non è possibile pensare ad una vita perfetta. Il dolore e la sofferenza non sono astrazioni, ma realtà da cui non possiamo fuggire.
Come nell’uomo, anche per la natura troviamo il limite, non è possibile pensare a una natura illimitata. Illuminante da questo punto di vista una frase di A. Baricco, estratta dal romanzo Oceano Mare: “La natura ha una sua perfezione sorprendente e questo è il risultato di una somma di limiti. La natura è perfetta perché non è infinita. .... Perché il sistema funzioni deve finire”. La stessa vita cade inesorabilmente sotto questo giudizio. Essa è il dono più alto che ci viene fatto, ma nella sua perfezione, incorre nel limite. La preziosità e la precarietà della vita umana connotano l’esperienza di ogni persona. Due sponde necessarie, due realtà irrinunciabili.
L’uomo, ci ricorda Pascal, prova sgomento “vedendosi sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell’infinito e del nulla”.  Viviamo veramente sospesi tra i due abissi che ci descrive Pascal. Da una parte la vita mostra tutta la sua precarietà, l’insondabilità, la non-programmazione, d’altra parte paradossalmente, proprio questa precarietà la rende preziosa perché unica e irripetibile.
In una prospettiva cristiana, però, S. Paolo ci indica la via della speranza che passa attraverso la morte e la resurrezione di Cristo stesso.
Ma…
  • La sofferenza tante volte sembra non portare da nessuna parte. Non apre nuovi percorsi o nuove strade. La vita non si sta rinnovando, ma, in una maniera o nell’altra, sembra spegnersi in modo definitivo. La stanza diviene l’unico luogo dove fermare lo sguardo, il letto o la carrozzina divengono, giorno dopo giorno luoghi troppo angusti per far esplodere di nuovo la vita.
S. Francesco invece nel Cantico delle Creature (siamo nel 1224 circa…) chiama la morte “sorella”, era capace di avere con lei un rapporto di vicinanza sublime, la sentiva come parte di sé, la familiarità con essa lo toccava in profondità: “Signore, per riguardo alle mie infermità, vi chiedo soltanto di sopportarle pazientemente”. Non chiede di togliere di mezzo le sofferenze, chiede soltanto la forza di poterle sopportare.
Ci chiediamo:
  • Sentire la morte come parte di se stessi ….. ci abbiamo mai pensato? A vent’anni eravamo lontanissimi da queste considerazioni, ma adesso che tutti abbiamo abbondantemente passato i 40.. 50...?
  • non è affermazione da poco. Per San Francesco non era indice di disperazione ma consapevolezza della propria finitezza e della sua condizione di creatura che si affida. Per noi?
Parliamoci chiaro…. La morte è il contrario della vita, la prima non è giustificabile. Quante volte ho ripetuto piangendo persone care che “la morte è ingiusta” ...
Non riusciamo più a guardare in faccia il limite che queste “crude realtà” ci pongono dinanzi, tanto che, accanto all'estrema solitudine del sofferente o del morente, emerge una mentalità che non ci aiuta più a supportarle con la presenza. La sofferenza e la morte, a volte, sono consumate in uno stato di profondo isolamento.
A forza di rimuoverle, però, si rischia di non riconoscerle. Esse non sono più al centro della nostra vita, come momento di riflessione, ma rimangono ai margini e quando, purtroppo, si presentano  nella nostra vita non sappiamo più accompagnare e sostenere chi è costretto a subirne le conseguenze. (cfr il povero Ivan Ilic)
Con questo, non si deve fare l’elogio della sofferenza e del dolore, non si può cadere in una specie di “masochismo religioso” inneggiando ad essi o pensare che chi soffre si merita quella punizione. La sofferenza rimane una realtà negativa della nostra vita; non si può gioire davanti ad essa, ma l’unica strada per riscattarla a livello umano è saperla riconoscere per quello che è, guardarla in faccia.
Ci chiediamo:
  • … come è cambiata la percezione della sofferenza in ambito religioso? (ho in mente il film francese – regia Alain Cavalier- su Teresa di Lisieux, del 1986, o la vita di alcuni santi per i quali la sofferenza è legata all’incontro con Cristo).
  • Non pensiamo piuttosto che la scienza sia la vera fede di oggi, poiché riteniamo che solo essa sia in grado di scacciare la sofferenza e di farci morire “bene”?
La sofferenza e i giovani
Sembrano impermeabili a tutto e, quando sono toccati dalla sofferenza o dalla morte, vivono emozioni intense ma rapide. Queste realtà non entrano a far parte di una riflessione costante e duratura. Il loro mondo non è toccato da tutto ciò, anzi, niente sembra mettere in discussione questa realtà fatta di spensieratezza e leggerezza.
Anche noi adulti, però, non sappiamo più accompagnare i giovani in questa riflessione. La conseguenza immediata è che non riescono a sostare davanti al limite, tutto diventa possibile, tutto diventa superabile e corrono il rischio di rispondere al dolore degli altri con estrema insensibilità.
Ci chiediamo:
  • È possibile accompagnare intere generazioni con l’idea che la morte non esista o che il dolore possa essere sempre evitato (uso di droghe, o buttandosi nel divertimento a tutti i costi?). Continuando così, non aumentiamo l’indifferenza e l’insensibilità nei confronti del dolore proprio e altrui?
Il paradosso della croce
La Sofferenza e il dolore sono le esperienze più paradossali della nostra vita. È difficile trovare parole adeguate in grado di esprimere il senso e la ragione di realtà che interferiscono profondamente con il nostro quotidiano, cambiando, a volte, completamente l’esistenza. Parlare della croce è difficile, spesso si rischia di usare parole ovvie e consolatorie, che sono sempre inadeguate e banali per la persona che soffre. Diceva Giovanni Paolo II a migliaia di giovani nell’Aprile del 1988: “la croce è iscritta nella vita dell’uomo, volerla escludere dalla propria esistenza è come volere ignorare la realtà della condizione umana. E così, siamo per la vita, eppure non possiamo eliminare dalla nostra vita personale la sofferenza e la prova…”
Non possiamo, quindi, partendo da quest’ultimo passaggio evitare il confronto con l’esperienza cristiana. Dio per noi cristiani non è rimasto a guardare dal cielo l’umanità che soffre, ma ha mandato il suo figlio, Gesù Cristo, a condividere con l’uomo la sofferenza e persino la morte.
Ci chiediamo:
  • Gesù non ha amato la croce e la sofferenza ad essa connessa. Ma nemmeno lui, quando ha rivestito la condizione umana, ha potuto esimersi dall’affrontarla, insegnandoci piuttosto a riconciliarci con i nostri limiti, dando dignità alla sofferenza.
  • Ok la morte, ma perché la sofferenza, oggi? Oggi c’è un’etica del fine vita (es. suicidio assistito) che può scontare la sofferenza, ricorrendo al criterio del “diritto a morire” (v. intervento di Umberto Veronesi)… cosa ne pensiamo?
  • pensiamo alla sofferenza dell’innocente, del bimbo malato.. non consideriamo un gesto di pietà pensare di sopprimerli?
L’uomo dei dolori che ben conosce il patire
Gesù stesso – e non è stato facile nemmeno per lui… - si pone come l’uomo del dolore, che ben conosce la sofferenza. Diventando “uomo dei dolori”, egli ha stabilito una nuova solidarietà di Dio con le sofferenze umane. Figlio eterno del Padre, in comunione con lui nella sua eterna gloria, nel farsi uomo si è ben guardato dal rivendicare privilegi di gloria terrena o almeno di esenzione dal dolore, ma è entrato nella via della croce, ha scelto come sua parte le sofferenze non solo fisiche ma anche morali che lo accompagnano fino alla morte: tutto per nostro amore, per dare agli uomini la dimostrazione decisiva del suo amore, per riparare al loro peccato.
Lì sul Golgota Gesù compie per amore il suo ultimo gesto. Si dona fino in fondo, senza riserve, l’uomo dei dolori affida tutta la sua esistenza al Padre. È l’ultimo atto di una vita dedicata agli altri e specialmente a quelli che soffrono e sono relegati ai posti più infimi della società.
Ci chiediamo:
·         Gesù dunque ha sofferto, ma non per stabilire che solo soffrendo ci si salva. Il Signore infatti guarisce e lenisce la sofferenza di chi incontra  nella sua predicazione (ciechi, paralitici ecc…). Perchè?
·         Molto spesso Gesù ha steso la mano, ha protetto, guarito, si è intrattenuto mostrando compassione,anche opponendosi alle discriminazioni sociali del suo tempo. Solo chi ha sofferto più essere partecipe della sofferenza degli altri. Viene in mente Sap 1,13-15Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano”… ma di quale vita si tratta?
·         Gesù si commuove davanti alla sofferenza ed alla morte dell’amico Lazzaro. Proviamo a pensare ad un Dio che “si commuove profondamente e si turba” per la morte corporale dell’uomo…
Come non sentirlo vicino, inoltre, nel momento di maggiore dolore, come quando sta per morire “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Scrive C. Rocchetta nel libro Teologia della tenerezza a p. 249: “È certo che in quell’attimo Gesù non ha più nulla che gli appartenga o possa dire suo. Dopo aver offerto tutto, il suo corpo e il suo spirito, la sua vita e la sua morte, il passato, il presente e il futuro, vive ora la situazione più terribile: sentirsi solo, non sperimentare la filialità unica che lo fa essere una sola cosa col Padre al punto da avvertire la propria condizione al limite del vuoto o dell’insignificanza… Una simile “notte dello spirito” è superata non cancellandola o rimuovendola, ma accettandola e vivendola fino in fondo, bevendo il calice della passione fino all’ultima goccia”.
Quante persone, pur avendo una fede immensa, si sentono perdute, abbandonate, si domandano dove Dio sia finito. Nella lunga notte della sofferenza è difficile sperare: il legame che pensiamo di avere costruito con Dio può sparire in poco tempo.
Ma è proprio in quel frangente che il sofferente ha più bisogno di vicinanza, di presenza, e diviene indispensabile recuperare quel legame per non restare solo e rendere più docile la morte.
Prima della sua Passione, distaccandosi dai suoi discepoli aveva pregato dicendo: “Padre, se vuoi,allontana da me questo calice, tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua” (Lc 22,42).
“Nell’orazione, seppure breve, per ben due volte egli sottolinea la richiesta dell’allontanamento del calice della volontà paterna… Sebbene vada incontro ad una morte violenta e ingiusta, egli non dubita della volontà del Padre e si rende disponibile a fare la sua volontà, affermando come primario non il proprio desiderio, ma il piano divino…”
Gesù non è, dunque, un autolesionista, non vuole morire, anzi chiede al Padre di allontanare quel calice. Gesù rimane solo, abbandonato anche dai suoi discepoli. Non sono capaci di seguire Gesù in questo momento così triste. Invitati dallo stesso a vegliare, gli apostoli si addormentano.
C’è un elemento di fondamentale importanza: la preghiera. La tentazione di sottrarsi all’incombente minaccia di sofferenza e di morte non avrà presa sull’umanità di Gesù, perché egli vive questa minaccia incombente e reale dall’interno della sua consapevole ed esplicita relazione con il Padre. La preghiera, dunque, non evita, come in un rito scaramantico, tentazione o sofferenza, ma non ci lascia da soli di fronte all’incombere di queste tristi realtà. La preghiera acquista il senso di una lotta per comprendere la volontà del Padre anche all’interno di un destino difficile e angosciante. Gesù non vuole andare a morire, ma la preghiera gli fa comprendere come egli sia chiamato a intraprendere questa strada, invitando i discepoli a seguirlo. Ha riposto la sua vita nelle mani del Padre con fede e speranza.
Ci chiediamo:
  • abbiamo pensato o abbiamo sperimentato il valore della preghiera nell’ambito della sofferenza? Cosa ci aspettiamo dalla preghiera? Quando ricorriamo ad essa? Quando abbiamo toccato il fondo?
Lo vide e ne ebbe compassione – l’accompagnamento nella sofferenza
L’espressione più alta di come sostenere e accompagnare la sofferenza, però, la troviamo nella parabola del Buon Samaritano. L’episodio è raccontato da Gesù nel contesto di un colloquio con un maestro della legge che gli chiedeva quale fosse il metodo per ereditare la vita eterna.
Un dottore della legge, abituato alle sottigliezze della scuola rabbinica, si alza tra la folla e lo interroga: Maestro, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?. La risposta di Gesù è immediata: “Che cosa sta scritto nella legge? Che cosa vi leggi?”. Dopo un momento l’interlocutore recita a memoria: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. Ribatte Gesù: “Hai risposto bene; fa questo e vivrai”.  Il dottore incalza: E chi è il mio prossimo?
Ogni uomo che si trova nel bisogno, al di là dei connotati della nazionalità, di livello sociale, di ideologia o di religione. Ignorarlo, voltargli le spalle, passare oltre, come il sacerdote e il levita, è non riconoscere la sua dignità umana. “Lo vide e ne ebbe compassione…”. Gesù indica una strada precisa per poter star a fianco alla sofferenza.
Dio non è sofferenza. La volontà di Dio è che noi operiamo, al limite delle nostre possibilità, per il sollievo delle sofferenze del mondo e dell’uomo.  Il disagio è spesso più forte della volontà di impegnarsi in un cammino irto e complesso. Lo vide e ne ebbe compassione. Rischio: “Se mi fermo per aiutare quest’uomo che potrà succedermi?”
Ci chiediamo:
  • riteniamo la relazione, la comunicazione, l’ascolto, l’accoglienza una medicina per l’anima di chi soffre e come arricchimento di chi si mette in ascolto? Cosa ha da insegnarci chi soffre?
  • Quando i malati e sofferenti siamo noi, siamo in grado di accettare la mano tesa di chi ci sta vicino? Riusciamo a fidarci?

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